La “rieducazione” del Tibet e l’escalation dei suicidi

di Marco Del Corona

Corriere della Sera, 10 gennaio 2012


Il Tibet non brucia, a bruciare sono i tibetani. Un monaco del Qinghai (regione che appartiene all’area del Tibet storico), si è immolato domenica alle 6 del mattino, cospargendosi di kerosene e deglutendone sorsate, prima di darsi fuoco. Un venerato “Buddha vivente”, Tulku Sonam Wangyal, la cui morte è stata rivelata dall’autoproclamato governo tibetano in esilio e da Radio Free Asia ma confermata anche dall’agenzia cinese Xinhua. Macabri i dettagli riportati dalla radio, come il corpo che “esplodeva in pezzi”. Quando la polizia ha preso in consegna il cadavere, una folla di tibetani ha assediato il comando per reclamare le spoglie. Che sono state poi esibite in corteo. “E’ il primo suicidio di un lama reincarnato”, nota l’organizzazione International Campaign for Tibet che denuncia “una correlazione diretta fra la repressione del buddhismo tibetano da parte del Partito comunista e l’immolazione di Tulku Sonam Wangyal”, che aveva 42 anni.

E nel Tibet è scattata la rivolta gandhiana

di Piero Verni

Il Riformista, 25 novembre 2011

 

Un’autentica statua di fuoco. In piedi, immobile e avvolta dalle fiamme. Sono le  immagini terribili dell’immolazione della monaca Palden Choetso diffuse nei giorni scorsi da un gruppo di sostegno alla causa tibetana. Fotogrammi atroci che più di ogni parola dimostrano quanto la situazione nel Tibet occupato da Pechino sia ben lungi dall’essere normalizzata. Dodici persone che si danno fuoco per protesta in un breve arco di tempo parlano sia della crescente disperazione sia della caparbia volontà dei tibetani di non accettare il dominio cinese. Inoltre domani scadrà l’ultimatum della polizia ai monaci del monastero di Ragya, nella regione settentrionale dell’Amdo (oggi incorporata nella provincia del Qinghai) dove da alcuni giorni è stato esposta una gigantesca effige del Dalai Lama affiancata da due grandi bandiere del Tibet indipendente. E le truppe di Pechino sono rientrate nel monastero di Kirti (area sud-occidentale dello Sichuan) teatro di alcune delle recenti immolazioni.

Torce umane in nome del Tibet. Il Dalai Lama: Genocidio culturale

di Giampaolo Visetti

La Repubblica – 8 novembre 2011

 

PECHINO – Nell’indifferenza del mondo, il Tibet consuma la sua ultima tragedia. Monaci e suore dei monasteri buddisti, assediati dall’esercito cinese, non desistono dall’appiccarsi il fuoco per opporsi alla repressione di Pechino, che da marzo ha ripreso a svuotare i conventi fedeli al Dalai Lama. Dodici in poche settimane le vittime di sacrifici: un dramma senza precedenti nella storia della resistenza tibetana, sempre ispirata alla non violenza.

Se le torce umane del Tibet incendiano la prateria cinese

di Piero Verni

(Il Riformista, 19 ottobre 2011)

 

In un crescendo impressionante di avvenimenti tragici, due giovani tibetani sono stati ieri abbattuti a raffiche di mitra da agenti della Polizia Cinese mentre dimostravano pacificamente per la liberazione del Tibet. L’episodio è avvenuto nel villaggio di Karze, una prefettura autonoma tibetana dello Sichuan, importante provincia della Cina Popolare.  Poco ore prima della sparatoria Tenzin Wangmo, una monaca ventenne del monastero Dechen Choekhorling della contea di Nnegaba, sempre nello Sichuan, si era data fuoco dopo aver gridato per alcuni minuti slogan in favore della libertà del Tibet. Con la sua morte sono quindi ben nove le persone che quest’anno si sono immolate con il fuoco per protestare contro l’occupazione del Tibet. Cinque solo in queste prime settimane di ottobre.

Quei monaci in fiamme nel Sichuan

di Marco Del Corona

(www.corriere.it, 19 ottobre 2011)


Tenzin Wangmo aveva vent’anni e, viene da pensare, una fede grande quanto la propria disperazione. Monaca tibetana, addosso la tunica spessa di un inverno che ha già preso possesso del Sichuan settentrionale, la giovane religiosa si è cosparsa di carburante e si è data fuoco. Sarebbe stata vista camminare 7 o 8 minuti con il corpo in fiamme, prima di cadere a terra. Poi l’agonia e la morte fuori dal suo monastero, Dechen Chokorling, prefettura di Aba. Uniche parole pronunciate da Wangmo: slogan a sostegno del Dalai Lama e contro la repressione nel Tibet e nelle aree di cultura tibetana ma fuori dai confini amministrativi del Xizang, nome cinese della provincia.