Io, giornalista “a lezione” dalla polizia. Così la Cina lotta contro la rivoluzione.
di Giampaolo Visetti
Da oggi, se desidero rivolgere la parola ad un cinese, devo chiedere il permesso alla polizia. Nove moduli da compilare, in orario d’ufficio. Scomodo, nel caso di un’urgente necessità, ma accettabile dai tecnocrati della seconda potenza del secolo che all’improvviso si destano, misteriosamente assediati da un nemico invisibile. Più difficile fare richiesta di parlare con qualcuno, casualmente, per strada, con tre giorni di anticipo su un incontro determinato dalla sorte. Che in Cina si debba presentire chi si incrocerà, prevedere la curiosità del momento e presentare al governo una domanda sulla fiducia? E se si fosse colti dall’improcrastinabile desiderio di salutare uno sconosciuto? Il funzionario dell’ufficio stranieri di Pechino è colto da una sete fastidiosa, mentre cerca di spiegare le nuove misure per la mia sicurezza. Il suo tavolo, nel seminterrato della caserma di quartiere, due piani sotto lo sportello che rilascia i permessi di soggiorno, è sgombro da qualsiasi oggetto di lavoro e invaso da bottiglie d’acqua lasciate a metà. Due agenti, ai suoi fianchi, sorridono e scrutano il muro. Un terzo aziona una telecamera e ci tiene a mostrare lo zelo con cui riprende le “lezioni di comportamento agli amici giornalisti occidentali”. Non ce l’hanno con me. Sono uno qualsiasi tra le centinaia di convocati “per comunicazioni urgenti” nelle ultime ore. Il funzionario legge le istruzioni su un gobbo. Premette: “Quella che voi chiamate rivoluzione dei gelsomini in Cina non c’entra e non è oggetto di questo amabile colloquio. E poiché non sappiamo cosa sia, non sono autorizzato a parlarne”.