Io, giornalista “a lezione” dalla polizia. Così la Cina lotta contro la rivoluzione.

di Giampaolo Visetti

Da oggi, se desidero rivolgere la parola ad un cinese, devo chiedere il permesso alla polizia. Nove moduli da compilare, in orario d’ufficio. Scomodo, nel caso di un’urgente necessità, ma accettabile dai tecnocrati della seconda potenza del secolo che all’improvviso si destano, misteriosamente assediati da un nemico invisibile. Più difficile fare richiesta di parlare con qualcuno, casualmente, per strada, con tre giorni di anticipo su un incontro determinato dalla sorte. Che in Cina si debba presentire chi si incrocerà, prevedere la curiosità del momento e presentare al governo una domanda sulla fiducia? E se si fosse colti dall’improcrastinabile desiderio di salutare uno sconosciuto? Il funzionario dell’ufficio stranieri di Pechino è colto da una sete fastidiosa, mentre cerca di spiegare le nuove misure per la mia sicurezza. Il suo tavolo, nel seminterrato della caserma di quartiere, due piani sotto lo sportello che rilascia i permessi di soggiorno, è sgombro da qualsiasi oggetto di lavoro e invaso da bottiglie d’acqua lasciate a metà. Due agenti, ai suoi fianchi, sorridono e scrutano il muro. Un terzo aziona una telecamera e ci tiene a mostrare lo zelo con cui riprende le “lezioni di comportamento agli amici giornalisti occidentali”. Non ce l’hanno con me. Sono uno qualsiasi tra le centinaia di convocati “per comunicazioni urgenti” nelle ultime ore. Il funzionario legge le istruzioni su un gobbo. Premette: “Quella che voi chiamate rivoluzione dei gelsomini in Cina non c’entra e non è oggetto di questo amabile colloquio. E poiché non sappiamo cosa sia, non sono autorizzato a parlarne”.

L’egitto e le paure di Pechino: una rivoluzione in Cina è inevitabile

di Wei Jingsheng

(AsiaNews, 23 febbraio 2011)

 

Uno dei maggiori dissidenti cinesi analizza il comportamento del Partito comunista cinese – che censura e minimizza le notizie riguardanti l’onda democratica nei Paesi arabi – e opera un paragone fra quei popoli e quello cinese. Oramai, spiega, “soltanto chi parla per il popolo viene ascoltato. E in Cina è tutto pronto per una nuova rivolta popolare”.

 

Battaglia per la successione al Dalai Lama. Pechino vara una legge: “Deve nascere in Cina”

di Giampaolo Visetti
(Repubblica.it, 23 febbraio 2011)

 

PECHINO. Il Dalai Lama afferma di essere prossimo alla “pensione” e tra Pechino e Dharamsala, sede del governo tibetano in esilio, è braccio di ferro per la successione. Da anni la Cina tenta di assumere il potere di nominare l’erede dell’attuale guida spirituale dei buddisti, completando così la conquista politica e culturale del Tibet. E’ una guerra che coinvolge anche l’Occidente, Stati Uniti in testa, combattuta a colpi di sequestri di persona, designazioni unilaterali e promozione di monaci lamaisti a leader del partito comunista. Ma ora, a poche settimane dall’annunciato ritiro di Tenzin Gyatso, 75 anni, XIV Dalai Lama e premio Nobel per la pace, Pechino sfodera per la prima volta l’arma del diritto. L’amministrazione statale per gli affari religiosi, una sorta di ministero che controlla la gestione delle diverse confessioni, ha annunciato il varo di una legge che fissa i criteri per una “legittima reincarnazione di Buddha”.

Credere a Hu Jintao?

di Piero Verni

(da Il Riformista, 21 gennaio 2011)

 

Eppure ci si erano messi di impegno organizzando manifestazioni, sit-in di protesta, petizioni, invii di lettere. Ma gli accorati appelli rivolti nei giorni scorsi ad Obama da decine di organizzazioni umanitarie e dai gruppi in esilio di tibetani, uiguri, taiwanesi, dissidenti cinesi ed esponenti della scuola religiosa Falun Dafa, sembrano essere caduti nel vuoto. Infatti, durante la visita negli USA di Hu Jintao (probabilmente l’ultima visto che il mandato del leader cinese scadrà nel 2013) il presidente americano ha usato il guanto di velluto. Oltre ad aver offerto all’ospite quel pranzo di gala, che gli era stato negato da Bush nel 2006, le dichiarazione rilasciate dal presidente democratico sono state più che morbide. Felpato l’accenno alla drammatica situazione dei diritti umani in Cina, “La storia dimostra che le società sono più armoniose, le nazioni hanno più successo ed il mondo è migliore quando i diritti e le responsabilità di tutti i popoli sono rispettati. Inclusi i diritti universali di tutti gli esseri umani”. Soave l’auspicio che Pechino e Washington possano, “… cogliere l’opportunità di lavorare insieme mano nella mano». E più che moderati anche gli accenni alle tensioni generate nel mondo economico americano dalla costante sottovalutazione dello yuan, “Ho detto al presidente Hu che accogliamo con favore l’aumento della flessibilità deciso dalla Cina per la sua valuta e che continueremo ad insistere perché il valore della moneta cinese sia sempre più fissato dal mercato.”

Obama a Hu: più rispetto per i diritti umani

di Massimo Gaggi

(Corriere della Sera – 20 gennaio 2011)

 

 

Barack Obama chiede alla Cina un maggior rispetto dei diritti umani: “Abbiamo storie e culture molto diverse, ma riconoscere la libertà di parola, religiosa e di riunione contribuirà alla prosperità e al successo del vostro popolo”. Hu Jintao, prima schiva la domanda di un giornalista americano trincerandosi dietro il cattivo funzionamento della traduzione simultanea. Poi, nuovamente incalzato durante la conferenza stampa, spiega che, nei limiti di un sistema assai diverso da quelli occidentali, la Cina vuole rispettare i diritti umani fondamentali e si propone di fare altri progressi in questa direzione. Ma non accetta pressioni straniere su quella ch considera una sua questione interna.