La storia spesso riserva sorprese: dopo 52 anni di resistenza i tibetani continuano a sperare
Se sulla Cina soffia il vento del Maghreb… «Pechino teme il contagio»
Alla vigilia dell’anniversario della rivolta del 10 marzo 1959 le autorità di Pechino hanno sospeso tutti i viaggi turistici in Tibet chiudendo, di fatto, la regione agli stranieri. Ufficialmente la sospensione è stata giustificata «soprattutto a causa del freddo invernale, la limitata offerta di alloggio e preoccupazioni per la sicurezza». Una versione ufficiale a cui non crede ovviamente Pietro Verni, già presidente dell’Associazione Italia -Tibet, tra i massimi esperti italiani di civiltà orientali nonché autore dell’unica biografia italiana autorizzata del Dalai Lama. Verni non è molto sorpreso dall’ennesimo giro di vite di queste ore del regime nei confronti della popolazione locale.
Io, giornalista “a lezione” dalla polizia. Così la Cina lotta contro la rivoluzione.
di Giampaolo Visetti
Da oggi, se desidero rivolgere la parola ad un cinese, devo chiedere il permesso alla polizia. Nove moduli da compilare, in orario d’ufficio. Scomodo, nel caso di un’urgente necessità, ma accettabile dai tecnocrati della seconda potenza del secolo che all’improvviso si destano, misteriosamente assediati da un nemico invisibile. Più difficile fare richiesta di parlare con qualcuno, casualmente, per strada, con tre giorni di anticipo su un incontro determinato dalla sorte. Che in Cina si debba presentire chi si incrocerà, prevedere la curiosità del momento e presentare al governo una domanda sulla fiducia? E se si fosse colti dall’improcrastinabile desiderio di salutare uno sconosciuto? Il funzionario dell’ufficio stranieri di Pechino è colto da una sete fastidiosa, mentre cerca di spiegare le nuove misure per la mia sicurezza. Il suo tavolo, nel seminterrato della caserma di quartiere, due piani sotto lo sportello che rilascia i permessi di soggiorno, è sgombro da qualsiasi oggetto di lavoro e invaso da bottiglie d’acqua lasciate a metà. Due agenti, ai suoi fianchi, sorridono e scrutano il muro. Un terzo aziona una telecamera e ci tiene a mostrare lo zelo con cui riprende le “lezioni di comportamento agli amici giornalisti occidentali”. Non ce l’hanno con me. Sono uno qualsiasi tra le centinaia di convocati “per comunicazioni urgenti” nelle ultime ore. Il funzionario legge le istruzioni su un gobbo. Premette: “Quella che voi chiamate rivoluzione dei gelsomini in Cina non c’entra e non è oggetto di questo amabile colloquio. E poiché non sappiamo cosa sia, non sono autorizzato a parlarne”.
L’egitto e le paure di Pechino: una rivoluzione in Cina è inevitabile
di Wei Jingsheng
(AsiaNews, 23 febbraio 2011)
Uno dei maggiori dissidenti cinesi analizza il comportamento del Partito comunista cinese – che censura e minimizza le notizie riguardanti l’onda democratica nei Paesi arabi – e opera un paragone fra quei popoli e quello cinese. Oramai, spiega, “soltanto chi parla per il popolo viene ascoltato. E in Cina è tutto pronto per una nuova rivolta popolare”.
Battaglia per la successione al Dalai Lama. Pechino vara una legge: “Deve nascere in Cina”
PECHINO. Il Dalai Lama afferma di essere prossimo alla “pensione” e tra Pechino e Dharamsala, sede del governo tibetano in esilio, è braccio di ferro per la successione. Da anni la Cina tenta di assumere il potere di nominare l’erede dell’attuale guida spirituale dei buddisti, completando così la conquista politica e culturale del Tibet. E’ una guerra che coinvolge anche l’Occidente, Stati Uniti in testa, combattuta a colpi di sequestri di persona, designazioni unilaterali e promozione di monaci lamaisti a leader del partito comunista. Ma ora, a poche settimane dall’annunciato ritiro di Tenzin Gyatso, 75 anni, XIV Dalai Lama e premio Nobel per la pace, Pechino sfodera per la prima volta l’arma del diritto. L’amministrazione statale per gli affari religiosi, una sorta di ministero che controlla la gestione delle diverse confessioni, ha annunciato il varo di una legge che fissa i criteri per una “legittima reincarnazione di Buddha”.