La discriminazione razziale

All’interno del loro paese, i tibetani hanno subito ogni genere di violazioni dei diritti umani e discriminazioni razziali. La Costituzione cinese e la Legge sull’Autonomia Regionale delle Etnie affermano che la Regione Autonoma Tibetana (TAR) “gode dei più ampi diritti di autonomia sia in materia di legislazione, dell’uso delle lingue locali parlate e scritte e dell’amministrazione del personale, sia in campo economico, finanziario, scolastico e culturale, della gestione e lo sviluppo delle risorse naturali e in altri settori”.

Nel 1981 la Cina ha accettato formalmente di rispettare le leggi internazionali menzionate nella Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di ogni forma di Discriminazione Razziale (International Convention on the Elimination of all forms of Racial Discrimination, CERD) che proibisce ogni distinzione, esclusione o preferenza basate su razza, colore, discendenza oppure origini etniche o nazionali.

Malgrado queste garanzie legali, i tibetani, definiti “minoranza razziale” dalla Repubblica Popolare Cinese, subiscono discriminazioni in ogni settore.
La discriminazione sistematica in campo sanitario, educativo, lavorativo, abitativo e della rappresentatività pubblica, continua a ostacolare la partecipazione dei tibetani allo sviluppo del proprio paese e ne ha svilito la posizione sociale al punto che, solo a causa della loro razza, sono considerati cittadini di rango inferiore. Se non saranno prese misure per porre rimedio alle discriminazioni prima che il Tibet occupato diventi la tomba di un’intera nazione, le ingiustizie e le disuguaglianze diverranno, entro breve, irrevocabili.



L’IMPIEGO
Il trasferimento di popolazione cinese in Tibet costituisce una delle minacce più gravi per l’impiego. Il massiccio afflusso dei cinesi è stato incentivato da salari più alti, ferie più lunghe, esenzioni fiscali e da migliori condizioni in materia di pensioni e investimenti.
I tibetani sono inoltre discriminati in molti settori. La maggioranza dei rifugiati riferisce che i datori di lavoro esigono la perfetta conoscenza della lingua cinese, indipendentemente dal tipo di lavoro. I tibetani sono vittime di pregiudizi e, essendo considerati incapaci e arretrati, sono loro offerti solo lavori umili, spesso a patto che, nella vita privata, abbandonino le usanze tipiche della loro cultura. La corruzione è prassi comune per ottenere un posto di lavoro ed è l’unico modo per spezzare quella rete di connessioni che assicura ai cinesi, proprietari della maggior parte delle imprese private e detentori di tutte le posizioni chiave, ogni tipo di lavoro e permesso.

Spesso i tibetani sono costretti a pagare per ottenere le licenze di commercio, da cui i cinesi sono esentati, e devono depositare cospicue somme, parimenti non richieste ai cinesi, per ottenere prestiti. Ai cinesi sono inoltre assegnati i migliori punti vendita e i prodotti tibetani sono plagiati e venduti sotto costo nel tentativo di metterli fuori mercato. Spesso gli agricoltori sono costretti a vendere i loro prodotti al governo a prezzi inferiori a quelli di mercato con il conseguente aumento della povertà contadina e le famiglie devono fornire manodopera coatta per progetti di sviluppo che spesso non recano alcun vantaggio ai tibetani. La discriminazione è evidente anche nei salari percepiti, a parità di lavoro, da cinesi e tibetani. Nortso, 29 anni, nel gennaio 2000 ha riferito che a Ngamring, prefettura di Shigatse, i tibetani impiegati nelle costruzioni stradali venivano pagati 15-25 yuan al giorno, contro i 40-80 dei cinesi. Quando lavorava nella costruzione di un ufficio per le telecomunicazioni, Nortso riceveva solo 10 yuan al giorno, mentre i cinesi ne guadagnavano 50.




LA SALUTE
Il Libro Bianco cinese sui Diritti Umani del febbraio 2000 afferma che in Cina tutti i cittadini hanno diritto a “servizi medici gratuiti e a un sistema previdenziale di cure mediche per i lavoratori a carico dello stato”. I rifugiati testimoniano invece che le cure mediche sono a pagamento, spesso in modo discriminatorio. Molti hanno rivelato di avere dovuto pagare le medicine a un prezzo maggiorato e che ai nomadi analfabeti sono prescritti farmaci scaduti o sbagliati. Inoltre sono negate le cure mediche ai tibetani che riportano ferite in seguito ad attività che le autorità considerano “politiche”.

Per il ricovero in ospedale, i pazienti tibetani devono inoltre versare un deposito che varia da 2.000 a 5.000 yuan. Anche se rimborsabile, in molti casi l’importo del deposito risulta proibitivo. Nel 1998, la somma richiesta, pari a 5.000 yuan, era cinque volte superiore al reddito annuo netto della popolazione rurale e pari al reddito pro capite dei residenti urbani. Secondo numerosi rapporti, al mancato pagamento segue la negazione del ricovero e la morte del paziente per mancanza di cure. I cinesi, per contro, non devono pagare nulla.

Preoccupa soprattutto la violazione dei diritti riproduttivi delle donne tibetane. Tutti i tibetani, indipendentemente dalla regione d’origine, età o professione, sono soggetti a un rigido controllo delle nascite affinché siano rispettate le quote ufficiali stabilite. In Tibet, il numero dei figli è importante perché i tibetani, soprattutto nelle campagne, hanno bisogno di famiglie numerose per sopravvivere. Le donne che hanno avuto due figli sono obbligate a farsi sterilizzare, spesso con interventi sommari, in alcuni casi mortali. Le tibetane sono costrette ad abortire anche al settimo od ottavo mese di gravidanza, in molti casi senza anestesia. Spesso, di fronte alla minaccia di multe salate o di altre gravi sanzioni, non hanno altra scelta. Queste norme sono applicate malgrado il livello della mortalità infantile tra i tibetani sia tre volte superiore a quello registrato nel territorio cinese. Anche in Cina le donne devono sottostare al controllo delle nascite, ma in Tibet, data la scarsa densità della popolazione e in considerazione del fatto che il suo tasso di crescita è inferiore ai limiti fissati dal governo, tale misura non può essere vista che come una forma di discriminazione e un tentato genocidio.



L’ ISTRUZIONE
La stragrande maggioranza dei bambini tibetani può frequentare la scuola solo per pochi anni. Poi la devono abbandonare a causa delle spese esorbitanti, della discriminazione in favore dei cinesi o anche solo perché gli allievi non sono in grado di seguire le lezioni in lingua cinese. Numerosi rapporti confermano che agli studenti tibetani è negato l’accesso alle scuole migliori e all’educazione superiore perché i posti disponibili sono riservati ai cinesi o a figli di funzionari tibetani che lavorano per il governo. Inoltre gli studenti cinesi ricevono, in classe, un insegnamento preferenziale.
I cinesi stessi ammettono che il 30% dei bambini tibetani in età scolare non riceve alcuna istruzione (contro una percentuale dell’1,5% dei bambini cinesi), a causa delle tasse scolastiche proibitive imposte dalle autorità di Pechino e considerate “inapplicabili” nei confronti degli studenti cinesi. Gli studenti riferiscono inoltre che agli esami di ammissione i tibetani devono conseguire voti più alti e che, per assicurarsi la prosecuzione degli studi, la corruzione è una prassi comune.

Un’ulteriore discriminazione è rappresentata dallo stanziamento di fondi speciali per le scuole cinesi, mentre nelle aree rurali (dove vive più dell’88% delle famiglie tibetane) le comunità locali sono obbligate a costruire le scuole e a finanziare l’istruzione a proprie spese. L’impostazione culturale dei corsi è tendenziosa e durante gli esami vengono poste domande ideologiche e politiche. Le autorità della Regione Autonoma hanno affermato in modo esplicito che “l’essenza del compito educativo e l’unica ragione d’essere dell’istruzione della minoranza nazionale è quella di crescere sostenitori e divulgatori qualificati della causa socialista”. Inoltre i bambini sono indottrinati costantemente sulla grandezza dei capi della Cina comunista.



LA CASA
Allo scopo di garantire un alloggio all’alto numero di immigrati cinesi, i centri urbani hanno subito consistenti trasformazioni architettoniche e oggi molti tibetani vivono nella minaccia di sfratti e demolizioni o di restare senza casa.

La discriminazione nell’assegnazione degli alloggi avviene in quanto agli immigrati cinesi arrivati a Lhasa è garantita un’abitazione e nelle agenzie preposte all’assegnazione delle case la corruzione è ampiamente diffusa. Ogni informazione circa nuove abitazioni è tenuta riservata all’interno della cerchia cinese e, di conseguenza, i tibetani non sono al corrente sulle possibili disponibilità. Anche gli affitti spesso sono troppo cari per essere accessibili.

Molti tibetani riferiscono di essere stati sfrattati in modo arbitrario perché l’edificio era stato definito “non sicuro” o non corrispondente ai parametri cinesi di “bellezza”. Molti proprietari non sono risarciti e sono trasferiti in condomini, in appartamenti più piccoli e con affitti più cari, o addirittura rispediti nei villaggi d’origine. Una ricerca approfondita ha rivelato che i nuovi edifici sono di qualità inferiore, quanto a dimensioni, fornitura d’acqua, scarichi, elettricità e fognature, rispetto alle case tradizionali tibetane.

La discriminatoria distribuzione dei contributi per le abitazioni fa sì che i cinesi fruiscano di servizi migliori, come acqua, elettricità e servizi sanitari appropriati, negati ai tibetani. Assieme al sistema di assegnazione degli alloggi, questa politica si traduce in una segregazione residenziale che vede gli spartani quartieri tibetani soffocati da quelli più nuovi e più grandi destinati ai cinesi. La situazione dei contadini tibetani è anche peggiore poiché più del 70 % di tutti i sussidi abitativi è destinato alle aree urbane della Regione Autonoma. Inoltre, il governo discrimina i tibetani limitando drasticamente la possibilità di trasferimento in città dei tibetani residenti nelle zone agricole, mentre permette agli immigrati cinesi non residenti di spostarsi liberamente. Al contrario dei cinesi, i tibetani sono soggetti a controlli costanti del permesso di residenza.



RAPPRESENTATIVITÀ PUBBLICA
Anche se, nella Regione Autonoma, il 48% dei funzionari che dirigono i dipartimenti regionali o di livello superiore è costituito da tibetani, questo dato non è indicativo di una classe di governo rappresentativa. Si controlla con molta attenzione che tutti i tibetani impiegati siano “politicamente puliti”, puliti da qualsiasi idea opposta alla politica del Partito. La Cina concede ai tibetani il diritto di votare ed eleggere i capi politici della Regione Autonoma, ma il popolo tibetano non può proporre i propri candidati che sono invece tutti scelti in anticipo dalle autorità cinesi e sono membri del Partito o filo cinesi.

Ai funzionari è proibito sostenere il Dalai Lama o qualsiasi attività a favore dell’indipendenza. Devono essere d’accordo con la versione cinese della storia tibetana e non devono avere nessun parente monaco o monaca, nemmeno in una sola contea. Nonostante questi controlli, i funzionari sono comunque soggetti a perquisizioni domiciliari arbitrarie e sul lavoro subiscono la presenza di “osservatori” cinesi che ne sorvegliano le decisioni. Nella Regione Autonoma, la lingua parlata da chi ricopre incarichi ufficiali è solo quella cinese. Di conseguenza, alla maggioranza dei tibetani è impedito accedere e partecipare alla vita politica.



TRASFERIMENTO DELLA POPOLAZIONE
Il massiccio trasferimento di popolazione in Tibet, incoraggiato dal governo, non solo viola i diritti dei tibetani, ma minaccia direttamente la loro sopravvivenza e la loro peculiare cultura.

Documenti del Partito Comunista rivelano che, oltre a fornire nuove aree di insediamento alla crescente popolazione cinese, la politica del trasferimento è stata adottata per indebolire la resistenza tibetana e controllare i dissidenti.
Oggi i tibetani sono una minoranza nel loro stesso paese. Secondo le stime del governo tibetano in esilio, i tibetani in Tibet sono circa 6 milioni, contro 7,5 milioni di non-tibetani. La disparità continua ad aggravarsi poiché i rifugiati fuggono dal Tibet e i cinesi continuano ad affluire nel paese. I cinesi in Tibet dominano la vita commerciale, politica e sociale e sopravanzano numericamente i tibetani nelle prefetture e contee non comprese nella Regione Autonoma. La popolazione a Lhasa è passata dai 30.000 abitanti del 1959 ai circa 200.000 di oggi. Di essi, un numero compreso tra il 60 o 70% sono cinesi.