Il 17 ottobre Tashi Wangchuk, strenuo difensore del diritto dei tibetani a parlare la loro lingua, è stato arrestato e percosso dalla polizia
Uscito dalla prigione lo scorso aprile dopo aver scontato quattro anni di carcere, Tashi aveva aperto un autolavaggio a Yushu City. In conformità a quanto richiesto dalla polizia locale si è recato presso gli uffici governativi per ottenere la licenza ma la sua domanda è stata rifiutata. Il filmato di quanto avvenuto è stato postato da Tashi Wangchuk sul suo account WeChat. Per questo, con l’accusa di aver commesso un crimine contro lo stato, è stato trattenuto in stato di detenzione per tre giorni presso l’Ufficio di Pubblica Sicurezza di Yushu City dove è stato interrogato e duramente picchiato dal capo della polizia e dal vice sindaco della cittadina.
“Non posso accettare di essere accusato di crimine contro lo stato per avere postato un video su WeChat perché ho diritto alla libertà di parola”, ha dichiarato Tashi. Quanto accaduto dimostra quanto sia difficile la vita degli ex prigionieri politici costantemente sorvegliati e vessati dalle forze di sicurezza.
Tashi Wangchuk, allora trentatreenne, fu arrestato il 27 gennaio 2016, due mesi dopo la pubblicazione sul New York Times di un articolo e di un documentario in cui denunciava le pressioni e lo stato di paura in cui versavano i suoi connazionali ed esprimeva il timore dell’annientamento della cultura tibetana attuato dal governo cinese attraverso la progressiva riduzione e deterioramento della lingua scritta e parlata. Accusato di “incitamento al separatismo” nonostante avesse sempre dichiarato di non volere l’indipendenza del Tibet, Tashi comparve davanti al Tribunale del Popolo della Prefettura di Yushu, nella regione del Kham, la mattina del 4 gennaio 2018. Liang Xiaojun, il suo avvocato, fece sapere che il processo, durato circa quattro ore, si era concluso senza una sentenza, rinviata a data da stabilirsi. La condanna, pronunciata dal tribunale di Yushu il 22 maggio, a distanza di oltre quattro mesi dal processo, dichiarò Tashi Wangchuk colpevole di “incitamento al separatismo”.
Immediate furono le prese di posizione di governi e gruppi internazionali a difesa dei diritti umani. Lobsang Sangay, allora presidente dell’Amministrazione Centrale Tibetana, definì la condanna “un travisamento della giustizia” perché Tashi Wangchuk nel difendere il diritto dei tibetani a esprimersi nella loro lingua si è appellato a quanto previsto dalla Costituzione cinese in materia dei diritti delle minoranze.
Fonte: tibet.net – redazione